
Il Dottor David Livingstone
David Livingstone (1813-1873) ebbe una fanciullezza oscura e misera: a dieci anni lavorava già in una filanda della natia Scozia; con una forza di volontà e uno spirito di sacrificio che lo distinguevano dagli altri operai, arrivava a mettere un libro in bilico sul filatoio, per poter leggere mentre lavorava, e dopo 14 ore di fatica logorante, frequentava ancora un corso di latino nella scuola del villaggio.
Suo padre, Calvinista di stretta osservanza, lo incoraggiò a diventare missionario e David, dopo aver letto una pubblicazione sui medici missionari, decise di studiare medicina e di entrare in una missione, con la speranza di essere inviato in Cina.
Terminati gli studi all'Anderson's College di Glasgow, egli fu accettato dalla Società Missionaria di Londra. Nel 1840 il giovane medico, ancora sconosciuto, fu inviato in Africa, dove sarebbe morto 33 anni dopo, divenuto ormai uno dei più famosi e ammirati personaggi dell'epoca Vittoriana.
Il 10 novembre del 1871 l'alba chiara illuminava il villaggio di Ujiji, sulla riva orientale del lago Tanganica e il sole saliva velocemente nel cielo facendo evaporare la rugiada che bagnava le palme.
Il mattino era già rovente quando il console inglese per l'Africa Centrale, un fragile ometto di mezza età, con uno stinto berretto blu, uscì dalla sua capanna.

30 anni di esplorazioni
Il dottor David Livingstone, dopo 30 anni di esplorazioni attraverso il continente, pur avendo assistito ad alcuni dei più straordinari spettacoli della natura, riusciva ancora a godere della vista e dei suoni consueti di un mercato africano e avrebbe annotato sul suo diario ogni minimo particolare: i polli starnazzanti appesi per le zampe, due bimbe che vendevano termiti arrostite... Quel giorno egli sedette faticosamente su un sedile di terra e i suoi due servi indigeni, Susi e Chuma, si accorsero che il suo viso stanco rifletteva il suo stato di depressione. Effettivamente Livingstone aveva valide ragioni per sentirsi depresso; qualche settimana prima di ritorno da una spedizione sul fiume Lualaba, era rientrato a Ujiji mezzo morto di fame e sfinito dalla dissenteria.
Disperatamente bisognoso di cibo, di medicine, ma soprattutto di lettere - da oltre due anni non aveva ricevuto lettere dal mondo civile - egli si era rivolto ai mercanti arabi del luogo chiedendo se da Zanzibar fossero arrivati i rifornimenti per lui; gli arabi lo avevano cortesemente informato che le merci erano arrivate, ma purtroppo in sua assenza tutto era stato rivenduto, compresa la corrispondenza. Seduto sul sedile di terra, mentre ascoltava il monotono sciabordare delle onde del lago, Livingstone, pensò che la sua straordinaria carriera africana era giunta alla fine, e così pure la sua vita: tutto ciò che gli rimaneva, erano pochi metri di cotonina, sufficienti forse a procurargli cibo per un mese.
Egli avrebbe voluto che gli fosse concesso ancora un anno di vita, uno solo, per poter rimediare a tutto ciò che non era riuscito a fare nei 58 anni della sua esistenza. L'esploratore era nato nella più squallida indigenza a Blantyre, il 19 marzo 1813, Scozia. La sua famiglia abitava in un edificio popolare di 24 stanze, occupate da 24 famiglie, di proprietà della stessa azienda che gestiva la filanda. Per i primi 14 anni della sua vita, il giovane David dovette dividere con i suoi genitori, tre fratelli e due sorelle, uno spazio di poco più di tre metri per quattro; la convivenza in un locale così stretto e affollato doveva instillargli per tutta la vita un insopprimibile desiderio di spazi aperti. Era un ragazzo introverso, scontroso e sgobbone, "stava sempre a pancia in giù a leggere" come raccontò più tardi un suo amico d'infanzia.

A 10 anni andò a lavorare in filanda, e trovò il sistema di sistemare sul filatoio in modo da poter leggere una frase ogni volta che si spostava avanti e indietro lungo la macchina. Sebbene lavorasse per sei giorni la settimana dalle sei del mattino alle otto di sera, trovava ancora la forza, dopo il lavoro, di frequentare per due ore la scuola e poi di leggere per altre due ore a letto. È significativo che le sue materie favorite fossero la storia naturale e le esplorazioni.
Suo padre, religioso fino al fanatismo, giudicava sciocchezze quei suoi interessi e suscitò nel ragazzo un complesso di colpa. David, solo dopo i 20 anni riuscì a conciliare gli scrupoli religiosi con il desiderio di sconfinati orizzonti e decise di utilizzare i risparmi raccolti con tanta fatica per diventare medico missionario. Quando, nel 1840, ottenne dall'Università di Glasgow la laurea in medicina, Livingstone era un giovanotto di 27 anni, taciturno, serio, con un viso piacevole; parlava inceppandosi, con un accento da operaio scozzese che gli studi non erano riusciti ad eliminare. Fu accettato dalla società missionaria di Londra, e fu invitato a Kuruman in Beciuania (l'attuale Botswana), che era allora la più remota missione dell'Africa meridionale.
Nell'aprile del 1841 arrivò a Port Elisabeth, 725 Km ad Est del Capo di Buona Speranza. Mentre il suo carro trainato da buoi attraversava una catena di colline pietrose verso le regioni interne che sembravano deserte, il giovane medico sentì il suo animo rallegrarsi.
Tutto ciò che vedeva lo riempiva di entusiasmo: i turbini di polvere nella boscaglia, il liquido tremolio delle cortine di aria calda sulle rocce lontane e anche le montagnole fangose alte quasi un metro che secondo le spiegazioni della guida, erano feci di elefante. Di notte sotto il cielo quasi bianco di stelle, egli giaceva ascoltando le conversazioni gutturali dei neri; benché non ne capisse una sola parola, pure si sentiva come uno di loro, che avesse in modo misterioso, raggiunto alfine, la sua patria.
Dopo un viaggio durato 6 mesi, Livingstone arrivò a Kuruman, un villaggio ai margini dei vasti territori interni dell'Africa, ancora praticamente sconosciuti agli europei, che si stendevano per migliaia di chilometri verso nord fino al Sahara. Kuruman era un piccolo villaggio che ospitava alcune famiglie missionarie e una congregazione di 350 indigeni, dei quali solo 40 erano battezzati e comunicati. Al suo arrivo, Livingstone fu deluso - trovò il luogo troppo addomesticato e spopolato, completamente dominato dal capo della missione, Robert Moffat, anch'egli scozzese, e scrisse una lettera alla famiglia in cui rivelava: "Io non costruirei mai sulle fondamenta poste da un altro, predicherò il Vangelo in zone nuove".
Nel mese di settembre, Livingstone, con un altro missionario, si mise in viaggio verso nord, attraverso gli aridi territori del Beciuania, per trovare una località adatta a una nuova missione. A stento si potrebbe immaginare un luogo più desolato per la diffusione del Cristianesimo: confinate con il deserto del Kalahari, la regione era piatta, con una vegetazione di arbusti spinosi, e così calda "che anche le mosche cercavano l'ombra".
I missionari senza scoraggiarsi scelsero Mabotsa, 320 chilometri a nord est di Kuruman, e all'inizio del 1843, vi impiantarono la nuova missione. Nel villaggio di Mabotsa, Livingstone si immerse nello studio dei dialetti locali con tale entusiasmo che ben presto il suo inglese si arrugginì. "Sto diventando sempre più selvaggio" notò con soddisfazione. Col passare del tempo, tuttavia, si accorse che anche la vita in quel villaggio non gli si confaceva: era avvilito dalle difficoltà incontrate nella conversione degli indigeni, che trovavano il Cristianesimo in netto contrasto con le loro tradizioni.
Essi dal canto loro, erano delusi dall'insistenza di Livingstone perché rinunciassero alla poligamia: nella loro primitiva società tribale, molte mogli significavano molti figli - cioè molte braccia per coltivare la terra e allevare il bestiame.
Sebbene Livingstone non volesse ammetterlo, nel suo intimo era molto più esploratore che missionario; non era mai così felice come quando avanzava a fatica nella boscaglia con 40° di temperatura, annotando meticolosamente la natura del paesaggio, la struttura dei termitai, la consistenza delle rocce o delle foglie.
Nel 1844 anche l'assalto di un leone, che avrebbe potuto riuscirgli fatale fu da lui descritto con freddo distacco: ... mi trovavo su di un rialzo del terreno; l'animale balzo su di me colpendomi ad una spalla e insieme rotolammo sul suolo sottostante, ruggendo orribilmente al mio orecchio, mi scosse come un terrier avrebbe fatto con un topo: l'urto mi produsse un torpore .... una sensazione provata dai pazienti sotto anestesia, che vedono ogni particolare dell'operazione, ma non sentono il bisturi.... questa particolare condizione si verifica probabilmente in tutti gli animali uccisi dai grossi carnivori, un pietoso intervento del nostro generoso Creatore per alleviare la sofferenza della morte."

Livingstone fu salvato dalla pronta reazione di un suo aiutante africano, Mebalwe, i cui spari allontanarono l'animale, ma il braccio sinistro dell'esploratore era ormai maciullato ed egli, per il resto dei suoi giorni, non potè sollevarlo al di sopra della spalla.
Durante la convalescenza a Kuruman, Livingstone chiese in moglie la figlia di Robert Moffat, Mary, una semplice e solida fanciulla che cresciuta in una remota missione, era ben preparata alle asprezze della vita in Africa. Essi si sposarono nel gennaio 1845 e insieme fondarono altre missioni, fra cui una a Kolobeng, a nord di Mabotsa, che furono tutte un fallimento.
A Kolobeng, Livingstone effettuò l'unica conversione della sua carriera, nella persona del capo Sechele della tribù dei Bakwena; tuttavia, questo cristiano appena battezzato fu incapace di abbandonare i piaceri della poligamia. Per Livingstone fu un brutto colpo, che valse a rafforzare quella che era una sua crescente convinzione, cioè che una religione straniera quale era il cristianesimo, non avrebbe potuto attecchire in Africa, finché non fossero sradicati definitivamente, tutti gli usi e i costumi tribali. Per raggiungere quello scopo, sarebbe stata necessaria una sana iniezione di attività commerciali inglesi, si sarebbe modificata così sostanzialmente la situazione economica degli indigeni, che abbandonando i loro selvaggi costumi, avrebbero imparato ad accettare il Dio dell'uomo bianco. Livingstone si persuase che prima di tutto era necessario scoprire una via fluviale che collegasse l'interno dell'Africa con l'Atlantico o con l'Oceano Indiano: un fiume che potesse diventare una grande via per il commercio britannico.
Nel Luglio del 1849 durante una delle sue spedizioni egli aveva attraversato la parte orientale del Deserto del Kalahari e aveva scoperto a Nord una grande distesa d'acqua (il Lago Ngami).
Gli indigeni della zona gli assicurarono che un immissario del lago era collegato da paludi e corsi d'acqua a una regione ricca di fiumi, in una qualche zona dell'Africa centrale.
Quella affermazione lo incuriosì stranamente; egli era ormai ossessionato dal sogno di un paradiso fluviale, su cui commercio e Cristianesimo sarebbero fioriti parallelamente.
Il 3 agosto 1851, dopo una marcia di 1.10 chilometri attraverso una regione talmente arida che era obbligato a bere nelle fosse puzzolenti dove si abbeveravano gli animali selvatici ("e a bere anche a grandi sorsate"), Livingstone raggiunse un fiume così bello e limpido che lo commosse fino alle lacrime.



Largo 450 metri, scorreva dolcemente verso oriente, perdendosi in lontananza.
L'esploratore dedusse che si trattava dello Zambesi che si getta nell'Oceano Indiano attraverso la colonia portoghese di Mozambico; egli aveva trovato la strada di Dio.
La tribù dei Makololo, che occupava il triangolo paludoso fra lo Zambesi e il suo affluente Chobe, accolse favorevolmente Livingstone e gli permise di fondare nella sua zona una missione e un centro commerciale. Per gli indigeni naturalmente il commercio e la presenza dei bianchi significavano fucili e protezione contro i nemici.
Prima di andare a vivere fra i Makololo, il missionario dovette però separarsi dalla sua famiglia, che si era rapidamente accresciuta e che si era sempre trascinato dietro.
La moglie di Livingstone che egli, poco elegantemente definiva, la mia grande fabbrica irlandese, aveva l'irritante abitudine di partorire durante le spedizioni.
Nell'aprile 1852, a Città del Capo, con rimpianto , ma anche con sollievo, Livingstone caricò, la moglie e i bambini su un piroscafo diretto in patria, dopodiché, lieto della riconquistata indipendenza e pieno di grandiosi progetti per il futuro, ritornò allo Zambesi per completare l'esplorazione.
Mentre fumavano solennemente le loro pipe di canna, i Makololo, stupiti, ascoltarono educatamente le teorie di Livingstone sull'apertura dell'Africa Centrale al commercio e alla religione inglese.
Sebbene essi non avessero alcuna idea di che cosa intendesse per Oceani e battelli a pale, accettarono di fornirgli 27 portatori, buoi e avorio, per una spedizione di prova fino alla costa; qualora egli fosse ritornato con armi da fuoco e altre merci, essi sarebbero stati lieti di stabilire intese commerciali con il suo capo (la regina Vittoria), anche se si trattava solo di una donna.
Esultante, Livingstone, parti l'11 novembre 1853 da Lynianti, il villaggio principale dei Makololo, e non si diresse a Oriente verso il Mozambico, lungo la sua strada - lo Zambesi - ma, per ragioni note a lui solo, andò verso Nord-ovest, attraverso le umide foreste del Batotseland e dell'Angola.
Probabilmente egli voleva trovare un percorso terrestre per i commercianti provenienti dalle coste dell'Atlantico, nonostante la distanza fra Linyanti e i porti dell'Angola superasse i 1.600 chilometri su terreno estremamente difficile.
Forse la mente dell'esploratore era già annebbiata dalla malaria, la malattia che lo avrebbe stordito e prostrato più volte prima che raggiungesse la costa.
Tutte le tribù che incontrava sulla strada gli chiedevano il pagamento del consueto hongo, cioè il diritto di passaggio: si trattava generalmente di un buon fucile, ma un giorno Livingstone ricevette la sinistra richiesta di cedere in alternativa ..."uno dei vostri uomini".
Con disgusto egli si rese conto che anche quella lontana terra all'interno dell'Africa nera era stata contaminata dalla tratta degli schiavi.
I suoi portatori, terrorizzati, gli chiesero di poter tornare indietro, ma Livingstone pagò un hongo supplementare in tessuto e perline e li obbligò a proseguire.

Quando, nell'aprile del 1854, raggiunse i primi villaggi dell'Angola, egli pagava i suoi pedaggi con indumenti e si nutriva di manioca e di carne di bue.
Alcuni mercanti portoghesi, impietositi, gli offrirono cibo e medicinali, ma la sua salute continuò a peggiorare.
Nell'avvicinarsi alle pianure della costa, presso Luanda, fu attaccato da nugoli di feroci zanzare, la cui dolorosa puntura era come un "chiodo d'una scarpa" che perfora il tallone".Quando infine le palme della costa atlantica si profilarono all'orizzonte, Livingstone era allo stremo delle forze; tuttavia riuscì ancora a notare lo stupore dei suoi portatori Makololo che vedevano per la prima volta il mare.
Il 1° maggio 1854, Livingstone fu trasportato a Luanda e sistemato nel letto dell'unico residente inglese della città. Per alcune settimane, l'esploratore rimase a letto, lottando per sopravvivere; era troppo debole per tenere in mano la penna ed era costretto a dettare il suo rapporto ufficiale per la società Missionaria di Londra.
Quando ai primi di agosto, il rapporto giunse in Inghilterra, accompagnato da alcuni schizzi di mappe disegnati con accuratezza sorprendente, fece scalpore: la marcia di 1.600 chilometri effettuata dallo sconosciuto missionario fu considerata come "una delle più importanti esplorazioni geografiche dell'epoca".
Livingstone, tuttavia, sapeva che la stessa impresa era stata compiuta da almeno due trafficanti di schiavi portoghesi, e anche se nella sua comunicazione aveva opportunamente dimenticato di menzionare questo fatto, il solo pensarvi lo torturava.
Rifiutata l'offerta di una vacanza in Inghilterra, l'esploratore comunicò la sua intenzione di ritornare a Linyanti per la stessa via per la quale era venuto e di voler poi proseguire lungo lo Zambesi fino all'Oceano Indiano.
Apparentemente il fine di questa ulteriore impresa era di dare al commercio inglese una possibilità di scelta attraverso diversi itinerari nell'interno, ma il vero scopo di Livingstone era ovvio: egli voleva essere il primo europeo ad attraversare il continente africano.
Quel viaggio quasi lo uccise, durante il ritorno egli cominciò a vomitare sangue, fu quasi accecato da un ramo appuntito e perse in parte l'udito per un attacco di febbri reumatiche.
Egli riteneva effemminato cedere alla debolezza e continuò a compiere accurati rilevamenti geografici, alzandosi febbricitante alle due di notte per compiere rilevamenti sulla luna.



Il 13 settembre al suo arrivo a Linyanti, dopo una assenza di quasi due anni, fu ricevuto dalla tribù dei Makololo come un eroe. Il capo Sekelutu fu così soddisfatto dell'uniforme portoghese recatagli in dono da Livingstone, che gli perdonò di non aver portato i fucili promessi e di aver speso in Congo tutti i gudagni ricavati dalla vendita dell'avorio.
Immediatamente furono reclutati più di cento portatori per accompagnare l'esploratore lungo il corso dello Zambesi.
Il 3 novembre 1855, Livingstone era pronto a riprendere il suo itinerario transcontinentale di 4.000 chilometri.
Mentre discendeva in canoa il fiume Chobe e poi lo Zambesi, egli, dirigendosi verso est si avvicinava a un fenomeno naturale sul quale aveva sentito molti racconti, ma che ancora non aveva visto.
I Makololo lo chiamavano Mosy oa Tunya, cioè il fumo che tuona e non avevano mai osato avvicinarsi. Il 17 novembre Livingstone cominciò ad udire un sordo rimbombo e vide che dal fiume si levavano colonne di acqua nebulizzata.
In seguito su richiesta del suo editore, egli dette una brillante descrizione nel libro Missionary Travels and Researches: "La cortina bianca come la neve sembrava composta da miriadi di piccole comete lanciate in un'unica direzione, ognuna delle quali lasciava dietro una scia di schiuma".
Al momento però l'esploratore non fu molto contento, per le difficoltà poste al suo cammino da quel muro di acqua alto 90 metri e largo 1.600, che egli doverosamente chiamò con il nome della regina Vittoria.
In effetti quel formidabile posto di blocco interrompeva la strada di Dio dopo appena 80 chilometri, ma l'esploratore si spinse in avanti, pregando in cuor suo che lo Zambesi scorresse liberamente per il resto del suo lungo viaggio fino al mare.
Livingstone fu lieto di scoprire che l'altopiano sulla riva settentrionale era fertile e zona non contaminata dalle febbri; gli uccelli cantavano sugli alberi e mandrie di bufali pascolavano fra l'erba alta.
Una colonia inglese avrebbe potuto prosperare in quel luogo, diffondendo il Cristianesimo attraverso l'Africa centrale ed eliminando la superstizione e la schiavitù.
Impaziente di raggiungere la costa e di comunicare le buone notizie alla Società Missionaria di Londra, l'esploratore si diresse a sud ovest per via di terra, in modo da evitare un'ansa dello Zambesi: fu uno dei peggiori errori che commise, perché seguendo quella strada evitò e quindi non scoprì le rapide di Quebrabasa, un tratto di fiume lungo quasi 50 chilometri, ostruito da massi e ribollente di schiuma, che gli avrebbe fornito la prova decisiva che il fiume non era navigabile.

Le febbri lo colpirono ancora violentemente ai primi di marzo del 1856, al suo arrivo al porto fluviale di Tete nel Mozambico.
I residenti portoghesi lo curarono con la stessa sollecitudine dei loro connazionali dell'Angola, rifiutarono da lui qualsiasi compenso per il cibo e il vestiario fornitogli e si offrirono di occuparsi dei suoi portatori Makololo qualora egli desiderasse continuare a discendere il fiume per poi tornare in patria.
Livingstone accettò e parti in canoa per completare gli ultimi 440 chilometri del suo viaggio; portò con se otto uomini e promise di tornare entro un anno per ricondurre i suoi portatori a Linyanti.
Le consuete nuvole di zanzare lo accolsero appena entrato nelle paludi del basso Zambesi e quando il 20 maggio 1856, raggiunse Quelimane, a pochi chilometri dalla costa, era nuovamente prostrato dalla malaria.
Il quarantatreenne esploratore non sapeva di essere già famoso; infatti da tempo erano giunte in Inghilterra le relazioni sull'epica traversata del continente e una nave da guerra inglese, la Frolic fu inviata a prenderlo per riportarlo in patria, dove fu acclamato come un eroe.
Dovette essere molto penoso, anni dopo, nel 1871, per il vecchio esploratore, seduto sul suo sedile di fango ad Ujiji, ricordare gli anni che seguirono il suo trionfale ritorno in Inghilterra.
Dapprima vi furono medaglie, un'udienza della Regina ed editoriali che lo proclamavano il più grande esploratore inglese dai tempi di Francis Drake, ma poi arrivò una gelida lettera, indirizzata a Quelimane, dai Direttori della Società Missionaria di Londra (dalla quale egli si sarebbe ben presto staccato), che gli comunicava come la società non avrebbe più finanziato spedizioni che "molto poco avevano a che vedere con la diffusione del Vangelo".
Acclamato come un missionario altruista e devoto che aveva convertito migliaia di indigeni, Livingstone non riusciva ad ammettere che le anime da lui salvate in Beciuania si riducevano a una sola.



Il libro Missionary Travel and Researches, di cui erano state vendute 30.000 copie, gli aveva procurato una ricchezza che per lui era imbarazzante; inoltre cosa peggiore di tutte, sua moglie, durante la loro separazione, aveva preso il vizio del bere e i suoi figli erano diventati per lui quasi estranei.
Vi era stata, poi, la lunga spedizione allo Zambesi (1858-63), finanziata dal governo, che si era risolta in un totale fallimento.
Livingstone era tornato a Quelimane a capo di un gruppo di sette persone per effettuare rilievi topografici e scientifici sulla strada di Dio, ma le ribollenti rapide di Quebrabasa, avevano bloccato il piccolo battello a vapore della spedizione, distruggendo il suo sogno di un fiume affollato di imbarcazioni di missionari.
Egli iniziò allora affannosamente a esplorare lo Shire, un affluente settentrionale dello Zambesi, ma anche questo fiume era interrotto da rapide.
Livingstone però non poteva più fermarsi, "andrò da qualsiasi parte, pur di andare avanti", nella sua marcia lungo la sponda del fiume egli vide aprirsi davanti a se la distesa di 30.000 chilometri quadrati del lago Nyassa, che già gli era stato descritto dai portoghesi.
Livingstone trasferì proprio in quella regione i suoi sogni coloniali e insistette perché vi fossero inviati missionari.
Tuttavia non appena i sette nuovi missionari ignari giunsero in quella zona, si trovarono coinvolti in un vortice di guerre tribali e di razzie di schiavi; tre di loro persero la vita, e i rimorsi di Livingstone aumentarono ancora.
Il 27 aprile 1862 era morta anche la moglie di Livingstone, che l'aveva raggiunto insieme alle famiglie di missionari; l'esploratore ne fu disperato e scrisse nel suo diario: "Per la prima volta nella mia vita, vorrei morire".
Nel frattempo la salute e il morale dei membri della spedizione allo Zambesi si erano andati rapidamente deteriorando e Livingstone, che era riuscito facilmente a stabilire cordiali rapporti con gli indigeni trattandoli con gentilezza e pazienza, si trovò nell'impossibilità di tenere a bada un gruppo di febbricitanti e litigiosi europei.

Spossato dalla dissenteria ormai cronica, egli cadeva spesso nella più cupa malinconia, e, per settimane, rimaneva inoperoso, fissando il vuoto e borbottando fra sé, oppure era colto da accessi di rabbia isterica e urlava imprecando con un frasario che, John Kirk, botanico e medico della spedizione, definì il più immondo e insultante mai udito in quella zona.
L'esploratore si chiedeva nel suo diario, se stesse per perdere la ragione.
L'inevitabile lettera di richiamo in Patria del Ministero degli esteri giunse nel luglio 1863 ed egli scrisse desolato: "Non so se dovrò mettermi a riposo oppure no, ma se dovrò vorrei poter rimanere in Africa".
Livingstone fu di ritorno in Africa prima di quanto avesse potuto prevedere; grazie alle aderenze politiche di Sir Roderick Murchison, presidente della Royal Geografic Society, nel 1865 fu inviato a Zanzibar, nella veste non ufficiale di console inglese per l'Africa Centrale.
Nell'aprile 1866 sbarcò alla baia Rovuma, al confine fra Tanzania e Mozambico, per cercare la soluzione di un antico mistero: l'ubicazione delle sorgenti del Nilo.
Il suo piano era di guidare una piccola spedizione attraverso la regione ad occidente del lago Niassa ancora sconosciuta e ricercare un lago chiamato Bangwelulu, che si diceva desse origine a un fiume diretto verso nord che poteva essere il Nilo.
Egli già aveva scartato le affermazioni di Speke e Burton, secondo i quali i laghi Tanganica e Vittoria erano le sorgenti del Nilo, ed era invece affascinato dalle teorie di Erodoto che aveva scritto che nel cuore dell'africa si trovavano le misteriose fonti del Nilo, le cui acque scorrevano per metà a nord verso l'Egitto e per metà a sud.
Livingstone aveva già esplorato quello che riteneva fosse il ramo meridionale (che invece era lo Zambesi); gli restava da esplorare quello settentrionale e la sua immortalità sarebbe stata assicurata.
Il lago Bangweulu, raggiunto dal Livingstone il 18 luglio 1868, si rivelò una putrida palude pullulante di sanguisughe.
Ormai l'esploratore era così a corto di uomini e di rifornimento che fu costretto ad unirsi a una carovana di mercanti arabi di schiavi che passava da quelle parti: era una umiliazione penosa per un uomo che ancora si considerava un missionario, ma gli permetteva almeno di continuare la sua esplorazione.
Per buona parte del 1869 e del 1870 gli arabi, che giudicavano Livingstone divertente e originale, lo scortarono attraverso uno scenario di morte: nulla di quanto egli aveva visto in passato nelle colonie portoghesi era paragonabile agli orrori della tratta degli schiavi operata dagli arabi.



Scheletri di prigionieri delle spedizioni precedenti costellavano la boscaglia; gli indigeni urlavano di terrore quando vedevano apparire la carovana, quegli stessi africani che, come Livingstone ben sapeva, vendevano spesso ai mercanti arabi i prigionieri delle loro guerre tribali.
Il fiume Lualaba, che scorreva verso nord, convinceva sempre di più l'esploratore di aver trovato il corso superiore del Nilo, (in effetti si trattava del corso superiore del Congo).
Per 6 mesi nel 1870, l'esploratore tentò di raggiungerlo da solo, finché fu reso storpio da dolorosissime ulcerazioni ai piedi.Costretto a restare inattivo per altri 6 mesi, rilesse quattro volte la Bibbia dalla prima parola all'ultima. Quando fu nuovamente in grado di camminare, si diresse di nuovo al Lualaba e finalmente, nel marzo 1871, lo raggiunse a Nyangwe (nell'attuale Zaire).
In quel punto il fiume scorre verso il nord e Livingstone cominciò a progettare una spedizione in canoa per accertare se lo stesso Lualaba o qualcuno dei suoi affluenti avesse come sorgenti le favolose fonti che lo ossessionavano ogni giorno di più.
Mentre l'anziano esploratore sedeva sognando nel calore pomeridiano di Ujiji, un improvviso colpo di fucile squarciò il silenzio, seguito da altri spari. Ed ecco una guida giungere di corsa attraverso lo spiazzo, urlando in inglese: "L'ho visto!" Stupito, il vecchio esploratore si alzo e avanzò nella luce chiara.
Gruppi di indigeni eccitati riempivano la piazza, dalla via giungevano rumori di canti e risa. Livingstone scorgeva una bandiera che sventolava al di sopra della folla: le stelle e le strisce? Ora si vedeva il capo della carovana, era un giovanotto tarchiato molto elegante, con gli abiti stirati di fresco e gli stivali lucidissimi; era anche molto emozionato.
Quando si avvicinò all'uomo anziano che si era alzato, si tolse il casco e intorno si fece un grande silenzio. Allora disse inchinandosi: "il dottor Livingstone suppongo ?" - "Si". "grazie a Dio, dottore, mi è stato concesso di ritrovarvi !"
La drammaticità di quell'incontro, forse il più toccante nella storia delle esplorazioni, è diventata oggetto di svariati scherzi e vignette. Ma a mezzogiorno di quel 10 novembre 1871, a Ujiji, Henry Morton Stanley capì che solo la formalità più stretta avrebbe potuto tenere a freno la grande emozione da entrambe le parti; infatti Livingstone aveva le lacrime agli occhi quando strinse la mano del giovane. Più tardi quando si gettava con improvviso appetito sulla colazione celebrativa fatta allestire da Stanley, egli ripetè più volte al suo salvatore: "Mi avete ridato la vita!".
Diciotto mesi dopo Livingstone era morto.
Il primo maggio 1873, i suoi servitori Susi e Chuma lo trovarono inginocchiato sulla sua branda, in una località sulla riva meridionale del Lago Bangweulu, dove si era recato per una ulteriore indagine sulle sorgenti del Nilo, era freddo e rigido già da molte ore.

Tra le sue carte si trovò un documento amaro e drammatico: l'annunzio della scoperta delle sorgenti del Nilo cui mancava solo l'indicazione della latitudine e della longitudine.
A quell'epoca Stanley era già rientrato nel mondo civile dove fu elogiato per essere andato in aiuto di Livingstone, mentre tutte le iniziative inglesi per ritrovarlo erano fallite.
La fama che anch'egli contribuì a dare a Livingstone eclissò però largamente la sua, nei suoi dispacci al giornale Herald di New York, Stanley, trascurando gli errori compiuti dall'esploratore, lo descrisse come un santo che, malato e solo, aveva combattuto contro la tratta degli schiavi in Africa.
Nessun buon Vittoriano avrebbe potuto resistere al fascino di una figura dotata di tanta eroica virtù.
Tuta l'Inghilterra prese il lutto il giorno del suo funerale, ma in tempi più recenti il mito del missionario esploratore è stato notevolmente ridimensionato.
Indiscutibilmente Livingstone fu un fallimento come missionario, e come uomo poteva essere arrogante, sospettoso, irascibile e indifferente alle sofferenze altrui (come lo era d'altronde anche alle proprie).
La sua ossessione per le scoperte varie volte lo portò a mettere a repentaglio la salute e persino la vita dei suoi familiari e dei suoi colleghi missionari ed esploratori. Inoltre malgrado il suo genuino amore per gli africani, in più di una occasione egli dimenticò le promesse di aiutare coloro che gli avevano fornito provviste e portatori per le spedizioni, tuttavia la sua ristrattezza di interessi e propositi, che mal si adattavano ad un missionario, gli procurò in gran parte le sue grandi capacità come esploratore.
Infatti più si esaminano i suoi errori e più la sua personalità viene esaltata: egli fu indubbiamente un grande uomo, quasi sovrumano nella sua tenacia, un grande individualista, sinceramente dedito nel suo intimo a quello che egli chiamava "il sollievo delle miserie umane". Il suo corpo dopo un lunghissimo trasferimento dall'Africa fu sepolto nell'abbazia di Westminister e ricevette gli altissimi onori di tutti i grandi di Inghilterra.
